Tra innovazioni e implicazioni sociali ed economiche

L’11 dicembre 2001, la Cina fa il suo ingresso nella World Trade Organization (WTO),
completando un percorso iniziato nel 1972, anno dello storico incontro tra il Capo di Stato
americano, Richard Nixon, e il Capo di Stato cinese, Mao Tse Tung. È in questo giorno del terzo
millennio, tre mesi dopo l’attentato alle torri gemelle, che si può collocare la nascita della
“Globalizzazione” (termine coniato da The Economist nel 1962) moderna, anche se si deve ricordare
che questo fenomeno, in nuce e senza alcuna logica programmatica condivisa, risale ad un tempo
molto più remoto, nel quale vari popoli, con le loro avanguardie mercantili e militari, si
avventurarono alla scoperta di nuovi territori, al di fuori della propria area di stanziamento
originario. Una data, naturalmente convenzionale, che condensa in un unico momento un lavoro,
frutto dei tantissimi negoziati che sono stati necessari per arrivare a mettere insieme una quantità
pressoché infinita di tessere all’interno di un unico quadro che potesse, quasi magicamente,
contenerle tutte. Da allora il mondo non è stato più lo stesso, sono cambiate le regole del gioco, così
come le logiche di gestione delle relazioni: Paesi grandi e piccoli, più avanzati e meno sviluppati,
hanno deciso di adottare i princìpi sanciti nella WTO per gestire i loro scambi a tutte le varie latitudini
e longitudini.

Gli effetti, dopo poco più di vent’anni da allora, sono sotto gli occhi di tutti. In questi due
iniziali decenni, l’asse di rotazione del pianeta, a livello economico, finanziario, industriale, militare,
scientifico e tecnologico ha registrato uno spostamento progressivo, che ha costretto di fatto gli
U.S.A. a condividere con la Cina la loro indiscussa, fino ad allora, centralità. Volenti o nolenti, tutti i
Paesi hanno imbastito le loro relazioni entro questa cornice, che ha contribuito a modificare di fatto
l’ordine mondiale. Nuove traiettorie non rigide, ma soggette ad ulteriori aggiustamenti dietro la
spinta di nuovi protagonisti (e.g. BRICS) nonché all’esito delle “cinquantanove guerre in corso e dei
trecentottantotto conflitti negli ultimi dieci anni”1, che non potranno non modificare ulteriormente
e progressivamente la geometria attuale di un mondo che, proprio a causa di tutte queste
turbolenze, è stato definito da qualcuno “età del caos”.

Una trasformazione epocale, frutto di una lunghissima serie di innovazioni nei campi più
disparati che, combinate e sintetizzate plasticamente nella triade internet, container e catena del
valore di Porter2, hanno permesso di costruire intorno al pianeta un reticolo estremamente fitto,
collegando individui, realtà pubbliche e private, comunità e Paesi, appartenenti a diversi continenti;
da un lato, esso permette di far fluire un incessante numero di bit e, dall’altro, di muovere una
smisurata quantità di atomi, in una supply chain planetaria. Tutto ciò, grazie anche alla disponibilità
di strumenti intelligenti e agili, ha consentito di ridisegnare e plasmare strutture originariamente rigide, scomponendole e ricomponendole come pezzi di un lego. Gli assetti geo-politici, oltre a quelli
economici, finanziari e industriali sono stati plasticamente rimodellati; ne sono derivati cambiamenti
sociali talmente profondi da mutare la vita dei popoli e financo la loro dimensione culturale. Il tempo
è stato accelerato e lo spazio contratto; il clock degli eventi ha aumentato la sua frequenza e la
velocità dei cambiamenti è cresciuta e continua a farlo senza sosta; a tal punto che l’offshoring, il
mantra di qualche anno fa, viene già ri-declinato nel senso di marcia contrario in reshoring,
nearshoring, backshoring e friendshoring e chissà con quali ulteriori prossime ri-configurazioni.

L’Unione Europea (UE), ancora il più grande mercato al mondo, ha purtroppo perso la sua
antica centralità, sia tecnologica sia industriale; un PIL in decrescita mostra con una freddissima
evidenza come immobilismo e miopia, tendenti all’autolesionismo, possano imbalsamare una
comunità di ventisette Stati molto incerti e fortemente in difficoltà nel progettare il futuro di una
massa di circa mezzo miliardo di persone. Uno stallo che le frizioni di una campagna elettorale già
partita presumibilmente congeleranno fino a giugno prossimo. In questo immobilismo corre tuttavia
l’obbligo di evidenziare, a beneficio delle nostre riflessioni che, tra le varie, il 9 dicembre u.s. è stato
raggiunto un importante accordo sull’AI Act (di cui parleremo nella seconda parte) che entrerà in
vigore entro i prossimi due anni, a meno di eventuali sorprese.

La situazione italiana è purtroppo addirittura peggiore: un Paese, come lo definisce il Censis
nel suo 57° rapporto, di «sonnambuli», un fenomeno non imputabile solo alle classi dirigenti, ma alla
«maggioranza silenziosa» degli italiani, ciechi dinanzi ai presagi; un Paese dalle mille scie divergenti,
ma nessuno sciame”: i giovani in fuga, 36.000 gli expat tra 18 e 34 anni, solo in questo 2023. “Italiani
resi più fragili dal disarmo identitario e politico, al punto che il 56,0% (il 61,4% tra i giovani) è convinto
di contare poco nella società. Feriti da un profondo senso di impotenza, se il 60,8% (il 65,3% tra i
giovani) prova una grande insicurezza a causa dei tanti rischi inattesi. Delusi dalla globalizzazione,
che per il 69,3% ha portato all’Italia più danni che benefici. E rassegnati, se l’80,1% (l’84,1% tra i
giovani) è convinto che l’Italia sia irrimediabilmente in declino”3.

Anche all’altro capo del pianeta, il 2024 si preannuncia come un anno estremamente delicato,
visto che il 5 novembre 2024 si voterà per l’elezione del nuovo Presidente statunitense; si tratterà di
una elezione estremamente importante il cui esito, ancora molto incerto, contrapponendo due
candidature profondamente diverse, avrà, in un caso e nell’altro, dei risvolti a livello mondiale di
grandissima portata, ma di segno radicalmente opposto.

Sul fronte delle Big Tech, non ci sono invece incertezze; esse trainano sviluppo e innovazione,
imponendo un modello di crescita basato sull’uso intensivo e strutturale del digitale, modificando
totalmente i modelli di conseguimento dei risultati, innalzando il livello dei ricavi verso vette
(centinaia di miliardi di dollari) solo pochi anni fa assolutamente impensabili, contenendo
parallelamente e strutturalmente la crescita dei costi correlati e riducendo il numero degli addetti.
Non solo, ma con le logiche della subscription economy, esse hanno creato modelli di reiterazione
pluriennali dei fatturati, che le rafforzano vieppiù. Un vero e proprio miracolo che sovverte le antiche
leggi, proprie di un mondo industriale fordista e taylorista che, non ostante la realizzazione di grandi processi di automazione, era costretto a governare costi del lavoro rilevanti, stante la grandissima
quantità di manodopera richiesta obbligatoriamente dalla gestione di grandi processi produttivi.

Le masse lavoratrici, per parte loro, aggregandosi in vario modo, a livello politico e sindacale,
stanno cercando in tutti i modi di portare avanti le loro rivendicazioni, ottenendo risultati certamente
non classificabili in termini positivi. Le lotte, di quella che un tempo si chiamava la classe operaia,
hanno avuto il loro epicentro nel ventesimo secolo; in questo nuovo secolo, pur esistendo ancora,
anche se con forme e modalità diverse, e pur abbracciando tutte le diverse categorie sia del mondo
pubblico sia di quello privato, incontrano progressivamente serissime difficoltà. Rileggendo
l’epitaffio sulla tomba di Karl Marx “lavoratori di tutto il mondo unitevi”, con gli occhi di chi vive in
questo secolo, più che una esortazione alla conquista di un miglioramento delle condizioni
lavorative, sembra invece un grido che chiama le forze a serrare i ranghi nel disperato tentativo di
non soccombere.


  1. S.CASSESE, “L’ordine mondiale è fallito”, Sussidiario.net, 26novembre 2023
  2. M.PORTER, “Il vantaggio competitivo”, Einaudi, Torino, 2004
  3. CENSIS, “57° Rapporto”, Franco Angeli, Milano, 2023

Autore: Massimo Di Virgilio