Vi segnalo l’articolo pubblicato sul n.4 – settembre 2016 di Digitalvoice.it dalla collega Luigia Tauro:

Sono in cima alla nostra agenda fitti ragionamenti su alcuni punti chiave: la Digital disruption è intorno a noi, tuttavia non si può essere tutti Digital disruptor. Si deve dare amplissimo spazio alla Digital transformation. Questa non è solo tecnologia, ma innanzitutto un nuovo modo di pensare e di agire.

 

La leggerezza, in una struttura organizzativa, è quel che garantisce rapidità dei tempi di risposta e flessibilità delle risposte agli stakeholders – siano essi clienti, azionisti, dipendenti o più in generale la società civile – in un contesto competitivo e di mercato sempre più mutevole e sfidante.

Questo principio è stato coniugato come «fare meglio con meno»; quindi efficienza, riduzione dei costi, semplicità degli assetti organizzativi, fluidità dei processi interni. Ma la snellezza non deve essere fine a sé stessa: si deve porre obiettivi di efficacia dei processi organizzativi; deve basarsi su innovazione continua e anticipazione; deve focalizzarsi sulle attività che generano specifico valore per il cliente finale.

Mutuando le parole di Calvino da “Lezioni Americane“ [1], i valori della frugalità e della snellezza organizzativa non devono quindi essere un valore di per sé ma abilitare “la capacità di osservare le sfumature delle situazioni, l’intuizione, la capacità di ascolto dei segnali deboli, il seguire le tracce, la modestia, il lasciare che il mondo, che fa da sfondo, e le nuove combinazioni ivi costituite siano frutto di un atto progettuale leggero, che non sovrapponga l’ego e gli schemi concettuali precostituiti alle nuove soluzioni da ricercare”.

Un atto progettuale leggero.

Mi è sembrata quasi una contraddizione in termini, la prima volta che ho provato ad associare i termini “leggerezza” e “tecnologia”, che nella mia attività professionale è sempre stato il contenuto dei progetti che realizzavo. Fino a quando non ho capito che per comprendere a fondo questo concetto dovevo fare un passo indietro. Ed un passo avanti.

Il primo, per accettare le nuove competenze che avrebbe sviluppato il gruppo di lavoro assegnato al progetto, attivando il proprio capitale sociale.

Il secondo, per offrire le mie competenze se e nel momento in cui si fossero rivelate necessarie, contribuendo a far crescere quel capitale sociale.

Ha funzionato in tutte le situazioni in cui la soluzione al problema non era nota in partenza, in tutte quelle in cui era necessario innovare.

Potrei portare come esempio un progetto [2] realizzato per un grande gruppo bancario, che ha completamente rivoluzionato la costruzione delle campagne commerciali; e che quasi inavvertitamente (serendipity?) ha permesso anche di cambiare in modo fondamentale lo sviluppo ex-ante delle ipotesi di budget. Oppure potete far riferimento ad un ottimo articolo [3] della Harvard Business Review che approfondisce il tema delle knowledge-creating companies ed i principi teorici che le dovrebbero animare.

Mi resta tuttavia il dubbio che questo approccio si possa scalare, accedendo virtualmente alla conoscenza necessaria nel momento in cui si manifesta la necessità, o si possa realmente replicare in azienda.

La conoscenza e la creatività non sono, infatti, risorse in senso comune e la loro potenzialità si sviluppa soprattutto grazie all’interazione sociale.

Due imprenditori olandesi fondatori della Seats2Meet [4], Ronald van den Hoff e Marielle Sijgers, ci sono riusciti partendo da un concetto semplice, anche se contro-intuitivo:

hanno sostituito l’economia della scarsità con l’economia dell’abbondanza ed il concetto di pagamento tradizionale, il capitale economico, con un pagamento in capitale sociale.

Il concetto che sviluppa Seats2Meet è semplice: uno spazio di co-working in cui workplace, WI-FI, pranzo, caffè sono gratuiti per i liberi professionisti, purché accettino di rendersi disponibili, durante la permanenza negli spazi, all’interazione con gli altri utenti ed alla condivisione del proprio know how. Nel tempo la rete degli spazi si è arricchita di tecnologia, con un sistema di prenotazione in cui chi richiede lo spazio dichiara le proprie aree di competenza e una dashboard che permette di cercare, fra gli spazi disponibili, quello in cui c’è maggiore probabilità di trovare una competenza specifica, anche solo per validare un’idea o un approccio progettuale. E le interazioni avvengono in un ambiente informale ed accogliente, che facilita la socializzazione.

Ci sono una serie di elementi teorici che supportano questo modello di business, della cosiddetta “gift economy”, un modello di scambio di beni anche intangibili in cui il “venditore” non si spossessa del bene ceduto ma mira a stabilire una relazione con l’”acquirente”, che frutterà successivamente.

È quella che gli antropologi chiamano la “reciprocità asincrona”:

si attiva una rete professionale di cui si può beneficiare in futuro e si contribuisce a creare un capitale sociale condiviso a cui si potrà accedere quando necessario.

L’aspetto interessante di Seats2Meet, e parte del suo successo, è la fusione del reale con il virtuale, che dà l’accesso ad una rete potenziale molto più ampia di quella basata sui social network professionali tradizionali, ed in continuo cambiamento e riconfigurazione. È il concetto di Mesh Networks.

L’altro aspetto, particolarmente interessante per la generazione dei millennials, è il senso di appartenenza che si genera in un ambiente in cui sono loro stessi a creare il loro workplace.

E che ripaga Seats2Meet non solo con la disponibilità di know how, ma anche e soprattutto con il sostegno sui social media e con il passa-parola.

Il capitale sociale generato da Seats2Meet non si può quantificare e, soprattutto, non esistono modelli di contrattualizzazione. È tutto su base volontaria.

Il fatturato di Seats2Meet deriva dalle aziende, che stanno aderendo sempre più numerose, e che possono affittare spazi ufficio e meeting room a tariffe “tradizionali” e, se vogliono, possono accedere al capitale sociale presente negli spazi di co-working.

Tornando alla domanda originale: è possibile per una organizzazione tradizionale trasformarsi in una Serendipity Machine, connettendosi e condividendo risorse con i propri stakeholder per creare resilienza e valore sostenibile come ha fatto Seats2Meet? La

risposta che dà Ronald van den Hoff è semplice: bisogna partire con un primo passo, con una strategia di comunicazione in sintonia con la cultura della comunicazione contemporanea, che è sociale.

Voi cosa ne pensate?

luigiatauro@hotmail.com

[1] Lezioni Americane, Sei proposte per il prossimo millennio – Italo Calvino – Garzanti 1988
[2] Il cliente a tutto tondo: una metodologia di targeting per bisogni
[3] The Knowledge-Creating Company – Ikujiro Nonaka – HBR July-August 2007 issue
[4] https://seats2meet.com/, la Serendipity Machine